Premessa - Questa storia vuol essere soltanto uno studio del fenomeno e non un'incitazione ad addentrarsi nella pratica di una messa nera.
Suonavano le campane nel silenzio irreale della sera, e l'eco picchiava sui muri di sasso, rimbalzando tra gli stretti vicoli della città vecchia fino a raggiungermi sul terrazzo all'incrocio tra Gornja ulica e Rapske Brigade. Alzai gli occhi oltre la ringhiera azzurra, i quattro campanili bianchi si stagliarono nel cielo scuro, illuminati dal pallido sguardo della luna che sempre veglia sul sonno degli uomini, sospesi oltre l'incanto del tempo in cui vivono. - E' questa la mia terra... - pensai - un cuneo di roccia che si spinge nel mare lasciandomi appeso al cielo, ammaliato dalla forza che incute.
Dolin, a sud, mi apparve come un lungo serpente, la sua coda alta e sottile si allungava verso la penisola di Frkanj creando di fatto il canale d'accesso al porto. Più al largo potevo scorgere Dolfin, una lacrima di roccia sbocciata da un fondale di oltre ottanta metri, e Pag, meta di mille viaggi con le barche dei pescatori per raggiungere Tavernele alla ricerca di una pinta di buon vino.
La prima volta che sbarcai a Rab fu durante uno spaventoso temporale, i lampi scendevano a picco sul mare scuotendo l'aria carica di elettricità, subito seguiti dagli enormi boati del tuono, unica voce nella notte. Quando dal traghetto mi venne incontro il porto di Misnjak, credetti di essere giunto all'inferno, e quella visione spettrale rimase per sempre nel profondo della mia memoria trascinandomi molte volte sull'isola negli anni che seguirono per ritrovare la mia quiete.
Erano passati vent'anni da quella notte e finalmente il tempo si era deciso ad elargirmi la saggezza che andavo cercando, ma ciò che sembrava un pregio per i miei estimatori, pareva invece pura follia per tutti gli altri. Odio o amore, non ci fu mai una via di mezzo nel mio porgersi verso la gente, ma stranamente ogni impressione pareva esser corrisposta, salvo poi degenerare da lì a breve sino al punto estremo da cui non c'è ritorno.
La mia casa sull'isola era tra le più alte del borgo, duemila anni di storia ai miei piedi e poche soffitte davanti agli occhi. A nord, fuori dalle mure, il parco secolare, ad est il porto con i vecchi velieri accostati un una fila infinita, ma il mare, quello vero, lo vedevo scintillare proprio davanti, oltre le colonne romane che s'innalzavano tra il verde cupo dei pini.
Fu una voce di donna ad attirare la mia curiosità, un mugolio sommesso sospinto dalla brezza notturna che scendeva da Krk, cercai inutilmente di individuare il punto esatto da dove arrivasse, ma nessun movimento riuscì a sfuggire alla penombra dei muretti di pietra.
Sospiri, null'altro che flebili lamenti che si perdevano nell'intrico di quel mondo sperduto dieci metri più in basso. Il campanile... sì, ne ero certo per esserci stato prima che crollasse la scala esterna di noce massiccio, nessun altro luogo poteva colorare la voce di riflessi così misteriosi. Chi era dunque, e com'era salita, e ancora avrei voluto sapere chi ci fosse con lei... e quale immane peccato stessero commettendo insieme.
Maledetto il buio, protettore delle anime perse, ostacolo insormontabile per i miei occhi stanchi, costretti a scrutare in ogni angolo alla ricerca della scena esaltante che si consumava lontano dal mio sguardo. D'un tratto fui colto dall'idea di usare come aiuto lo zoom della Canon digitale, tolsi la macchina fotografica dal fodero e ingrandii l'immagine nello schermo premendo a fondo il comando del teleobiettivo.
Eccoli i maledetti, finalmente caduti nella rete, acquattati dietro la seconda feritoia del campanile, in bilico sulla rampa che dava accesso al pianerottolo intermedio. Non potevo scorgere altro che le loro ombre in controluce, miseri dettagli di una ben più ghiotta veduta, negatami dalla stessa oscurità che impediva a loro di vedermi.
C'era una sola possibilità, una soltanto ed anche abbastanza rischiosa, scattare un paio di fotografie con l'ausilio del flash prima che capissero di essere inquadrati.